Giovedì 15 giugno alle ore 09.30, presso l'aula Odeion dell'edificio di Lettere, si terrà il convegno Antichi maestri in Grecia e a Roma. Archeologia, letteratura ed epigrafia.
Nella decorazione dell’emiciclo dell’École nationale supérieure des beaux-arts, al centro, tra i settantacinque artisti scelti in tutti i paesi e le epoche da Pericle a Luigi XIII e Luigi XIV, a fianco del giovane Apelle troneggiano Ictino e Fidia: ricorda Jean-Léon Gérôme come il suo maestro, Paul Delaroche, gli avesse prescritto «lo studio di Fidia, sempre di Fidia, nient’altro che di Fidia…».
L’arte del mondo classico, in particolare dal VI al IV secolo a.C., va considerata sotto l’aspetto di un alto artigianato, e l’intensità artistica del disegno su un vaso attico può uguagliare una metopa del Partenone, come ha notato Ranuccio Bianchi Bandinelli.
Eppure, nell’antichità i lavori di prim’ordine furono naturalmente riconosciuti come tali.
Nel IV secolo a.C., Isocrate, all’inizio dell’orazione Sullo scambio, lamenta come alcuni sofisti lo calunniassero sminuendone l’attività, ridotta alla confezione di discorsi per i tribunali, quando era invece capace di scrivere opuscoli filosofico-politici; sarebbe stato come apostrofare Fidia quale fabbricante di bambole o dire che Zeusi e Parrasio esercitavano la stessa techne dei pittori di tavolette votive (pinakia).
Il convegno intende affrontare da più punti di vista alcuni aspetti relativi agli illustri artefici greci – pittori, scultori, mosaicisti, incisori di gemme – a partire dal VI secolo a.C., approfondendone la ricezione attraverso i secoli, in particolare a Roma, dove persino gli uomini più eminenti potevano restare come intontiti nella contemplazione di un quadro di Aezione o di una statua di Policleto (così Cicerone nei Paradossi degli stoici).
Il suo titolo è in parte ispirato a uno degli ultimi romanzi di Thomas Bernhard (Antichi Maestri. Commedia, 1985), nel quale un anziano musicologo di nome Reger ogni due giorni si siede nella Sala Bordone del Kunsthistorisches Museum di Vienna per guardare un quadro di Tintoretto e sostiene che gli storici dell’arte sono dei parolai, perché «raccontano sull’arte una gran quantità di chiacchere finché non uccidono l’arte a forza di chiacchere…»; viceversa, è una vera gioia ascoltare il custode mentre illustra un quadro in qualità di modesto informatore perché «lascia l’opera d’arte aperta per colui che la sta osservando, che non gliela chiude a forza di chiacchere».
Può esser vero, a volte. In fondo, ogni uomo, in virtù di un incosciente istinto, è capace di giudicare i pregi e i difetti anche di quadri e statue, benché la natura lo abbia dotati di pochi strumenti per una loro adeguata intellegentia (sempre Cicerone, nel terzo libro del trattato Sull’oratore); e certe opere dilettano gli occhi anche di chi non ne capisce un granché. Ma chiunque sia solo un poco umano non può, per esempio, ignorare Prassitele a causa della sua maestria, come dice il grande erudito del I secolo a.C., M. Terenzio Varrone nelle Antichità umane.
Perché rientra nella buona cultura e nell’educazione, in breve nella humanitas, conoscere anche i sommi artefici.